Non desidero entrare nel merito della polemica sorta in seguito alla vignetta satirica pubblicata dal giornale francese relativa al terremoto nel centro Italia. Voglio solamente fare una piccola riflessione sul significato della parola “satira”, cercare di comprendere se ci sono e quali sono i suoi confini, i suoi limiti.
I dizionari etimologici propongono fondamentalmente una duplice radice dalla quale potrebbe derivare tale parola.
Un primo filone ne indica l’etimologia nella parola satura, abbreviazione della locuzione lanx satura, che nel latino arcaico indicava un piatto ricolmo, saturo, ripieno. Sembrerebbe riferirsi alla consuetudine di offrire agli dei un piatto ripieno di primizie e ogni genere di alimenti diversi tra loro.
Una seconda scuola di pensiero la fa derivare dal greco sàtiros, che significa satiro, cioè personaggio del seguito del dio Bacco. I satiri erano solitamente raffigurati con orecchie appuntite, naso schiacciato, coda di capra e piccole corna; erano abitatori dei boschi, sensuali e maliziosi, abituati a dire e fare qualunque cosa avessero in mente. Un po’ come i cultori del dio Bacco e del vino: persone che, in preda all’alcol, tendono a dire di tutto e di più.
Effettivamente, in entrambi i casi il significato della parola satira può essere quindi riassunto in un modo simile: genere letterario che mette a nudo con tono di scherno, ridicolizzandoli, i costumi, i comportamenti, le idee, le passioni, le gioie e i dolori dell’umanità intera, di una determinata categoria di persone oppure di un solo individuo.
Ritengo che sia fondamentale l’ambito dentro il quale viene pubblicato un articolo, una vignetta, un libro oppure messo in scena uno spettacolo. La vignetta è, per definizione, un disegno satirico o umoristico, accompagnato o meno da didascalie scritte o fumetti. La sua caratteristica principale è arrivare immediatamente al centro del messaggio, è comunicare in maniera fulminea il suo contenuto. E, altrettanto immediatamente, suscitare la nostra reazione.
La vignetta ci mette a nudo e palesa a chiunque sia al nostro fianco quello che pensiamo: possiamo leggere qualunque articolo di giornale o libro senza palesare all’esterno di noi stessi quello che suscita in noi; invece, difficilmente possiamo guardare una vignetta senza lasciar trasparire nulla. Traspare subito il sorriso compiaciuto, il riso sfrenato, la sospensione del giudizio, il fastidio oppure il disgusto.
Penso sia per questo che tanto spesso una vignetta suscita un caso, porta a discussioni e polemiche e interventi delle più alte cariche di uno Stato o di una religione, rimane sulla bocca di tutti per giorni e giorni. A differenza di un articolo o di un libro che, invece, vengono spesso dimenticati subito.
Mi pare che di fronte a un articolo di giornale che consideriamo brutto, offensivo, indecente (e quanti ne potremmo citare!) la nostra reazione sia semplicemente quella di smettere di leggerlo, di girare la pagina, di dimenticarlo. E spesso, anche a fronte di titoli di giornale che contengono parole offensive, non ci sono molte ‘autorità’ che si scompongono o offendono o insorgono indignate. E, altrettanto spesso, l’articolo e il titolo sono informazione (o almeno si ritengono tali), non facendo parte delle pagine satiriche.
Alla fine di questa riflessione non so ancora quali sono i limiti di una satira, quali siano i confini oltre i quali la satira diventa altro, se mai lo diventa. L’unica cosa che mi pare sicura è la possibilità di girare pagina nel caso non mi trovi in sintonia con quello che un intervento satirico mi sta comunicando. Se decido di leggere un giornale satirico, se decido di andare a vedere uno spettacolo satirico, devo avere la consapevolezza che mi troverò di fronte contenuti di ogni genere trattati in ogni modo possibile. E quasi certamente qualcuno di questi non mi piacerà oppure urterà la mia sensibilità.
Però nulla toglie la mia personale solidarietà al giornale francese, e ancora oggi mi sento di affermare “je suis Charlie”.