Il 14 febbraio sono stati dodici anni che Pantani ci ha lasciato.
Sono andato per molti anni a vedere una tappa del Giro d’Italia: sceglievo quella che mi pareva potesse essere la più bella e con altri amici eravamo là. Partenza notturna, avvicinamento fino al paese prima dell’ultima salita (tra i quindici e i venti chilometri all’arrivo) e poi a piedi su per la strada, in mezzo a migliaia di persone. Gruppi organizzati di tifosi che già alle sei del mattino erano alle prese con grigliate, vino e grappa. Andavo all’arrivo e poi scendevo fino a uno degli ultimi tornanti, luogo in cui aspettavo il passaggio dei corridori.
In quei momenti, su quelle salite, i ciclisti erano ragazzi al limite delle forze che cercavano di resistere un attimo in più degli avversari: quell’attimo rappresentava la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Ma Pantani era unico: piccolo, pelato, grintoso… quando lo vedevo avvicinarsi notavo subito il suo sguardo. Ero colpito dal suo viso. Trasmetteva fatica e gioia contemporaneamente. Allo stremo delle forze, ma assolutamente contento di essere lì.
Anche quando guardavo le corse in televisione, il suo sguardo di uomo contento era sempre un’attrazione fortissima. Nelle tappe di montagna più dure, lui era lì a guardarsi attorno; sembrava sempre in imbarazzo, quasi cercasse di passare inosservato, non visto. Finché gli scattava qualcosa dentro: allora dava un’occhiata agli altri, si toglieva la bandana e se ne andava, scappava da solo senza più voltarsi.
Le sue vittorie hanno emozionato chiunque, anche coloro che non si erano mai avvicinati al ciclismo, che non lo seguivano. La sua tenacia, la sua volontà di ripartire ogni volta che incappava in un incidente, anche quando lo davano per ‘finito’, è ciò che ha lasciato a ognuno di noi.
Grazie, Marco.
E grazie anche a sua mamma Tonina, che non ha ancora mollato, che insiste nel chiedere e ricercare la verità sulla morte di Marco. Una verità che verrà a galla. È sempre e solo una questione di tempo.