Mi capita spesso di interrogarmi su cosa sia la bellezza. Mi succede quando mi imbatto in un quadro, una scultura, un mosaico, un’opera universalmente riconosciuta come arte.
Me lo chiedo di fronte alle sculture di Rodin e ai dipinti del Botticelli, ai mosaici romani di Villa Armerina e ai templi greci di Agrigento, alle tele tagliate del Fontana e al surrealismo di Dalì, alla perfezione geometrica dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e ai dipinti altrettanto rigidamente geometrici di Piet Mondrian o alle sconosciute matite di Piranesi.
Me lo domando anche di fronte alla normalità della vita quotidiana, quando un lavoro ben fatto suscita emozione anche se non passerà mai alla storia né sarà mai pubblicato nei libri sull’arte.
Non so se la bellezza sia un fattore oggettivo o soggettivo. Non so come venga veicolata, non so dove risieda, se nell’opera in se stessa, se nello sforzo di chi l’ha creata, o diversamente nel messaggio che arriva a chi osserva. O, magari, in tutto ciò insieme o altrove.
Sicuramente è frutto dello sforzo per costruire qualcosa che rimanga, del talento e della genialità di donne e uomini reali che lottano per mantenere puro, pulito, dignitoso quel piccolo pezzo di universo nel quale vivono e che li circonda. Forse la bellezza è il trovarsi bene nel microcosmo che ci costruiamo attorno.
Ognuno di noi può e dovrebbe creare bellezza. La si può creare in qualunque condizione, anche nel corso di sei anni di prigionia nella giungla colombiana, come testimoniato in un meraviglioso libro da cui è tratta la frase: «quando sei incatenata a un albero per il collo e ti manca tutto… mi ci sono voluti anni a capirlo, ma hai ancora la libertà più importante: quella di decidere che tipo di persona vuoi essere.» (Ingrid Betancourt, “Non c’è silenzio che non abbia fine”, Rizzoli, 2010)
«Anche se giriamo il mondo in cerca di ciò che è bello, o lo portiamo già in noi, o non lo troveremo.»
— Ralph Waldo Emerson
Rodin, “La mano di Dio”, 1902-1916
Piranesi