Mi capita spesso di interrogarmi su cosa sia anche la bruttezza. Individuarla mi aiuta a capire cosa non sia la bellezza.
Il dizionario (Hoepli) la definisce: “cosa brutta, turpe, come azione turpe, infame, come macchia morale, contaminazione”.
Bruttezza è già, in se stessa, una parola brutta, stonata, ostica. Pare un errore grammaticale, una parola scritta male, vecchia, in disuso, obsoleta, lontana dalle nostre vita e realtà. È una parola che potrei quasi definire onomatopeica, cioè in grado di descrivere il proprio significato attraverso il proprio suono.
Nella vita di ogni giorno, la bruttezza è frutto della meschinità di uomini e donne reali che pongono al primo posto il loro personale interesse e tornaconto. È frutto di coloro che corrompono e di coloro che si lasciano corrompere. È frutto di quella cecità che impedisce uno sguardo plurale in nome del proprio piccolo orticello.
Gli eventi di ampio respiro, come l’esposizione universale 2015 (Expo) o le annunciate Olimpiadi del 2024, offrono la possibilità di avere uno sguardo globale, di cambiare il volto di una città e la cultura di coloro che la vivono (abitanti e visitatori). Rappresentano, in sostanza, la possibilità di creare bellezza.
Solo uomini e donne reali possono sprecare occasioni simili trasformandole in bruttezza.
«In ogni secolo, filosofi e artisti hanno fornito definizioni del bello; grazie alle loro testimonianze è così possibile ricostruire una storia delle idee estetiche attraverso i tempi.
Diversamente è accaduto col brutto. Il più delle volte si è definito il brutto in opposizione al bello, ma a esso non sono state quasi mai dedicate trattazioni distese, bensì accenni parentetici e marginali.» (Umberto Eco, Storia della bruttezza, Bompiani)