Le parole sono strumenti per comunicare e raccontare storie, ma anche cartina di tornasole per comprendere il grado di evoluzione delle società che ne fanno uso.
Un grande giornalista e giurista, Gustavo Zagrebelsky, sostiene che: «il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza», per cui maggiore è la ricchezza lessicale, maggiore è il grado di democrazia e di uguaglianza di una società.
Ma, oltre alla quantità, è fondamentale la qualità delle stesse, cioè il loro stato di salute, la capacità di indicare con precisione cose e idee, l’aderenza alla realtà che descrivono. Le parole sono realtà, perciò intervenire sul linguaggio è modificare la realtà.
Illuminante è il libro “1984” di George Orwell, dove il potere assoluto (il “Grande Fratello”) ha ideato la neolingua, un linguaggio nuovo teso a rendere impossibile ogni altra forma di pensiero, a impoverire la parola fino a rendere l’azione del parlare un puro e semplice movimento delle corde vocali, senza alcuna implicazione del cervello e della ragione. Nella neolingua, ogni parola ha un solo significato, ben definito e privo di sfumature e privo pure di tutti i sinonimi. Per fare un esempio: “uguali” è sostituito da “coincidenti”, per cui concetti come “uguali davanti alla legge” diventano inesprimibili se non attraverso espressioni lunghe e complicate.
Nella neolingua i comparativi, i superlativi e i contrari sono sostituiti da prefissi. Un altro esempio: partendo dalla parola “buono” si ottengono più-buono, arci-buono, s-buono, rendendo in questo modo superflua, quindi eliminabile, un’ampia serie di parole come ottimo, migliore, cattivo, pessimo, peggiore, orrendo…
Anche per noi alcune parole sono state svuotate, manomesse, impoverite, di conseguenza quanto comunicano non è corrispondente alla realtà. È divertente cercarle:
— innocente: lo sentiamo spesso come conclusione ai processi dei potenti. Quante volte la notizia alla tivù o sui giornali: “Tizio è innocente. Caio esce innocente dal processo”. Se, poi, andiamo a fondo, scopriamo che Tizio ha beneficiato della prescrizione, che Caio non è stato condannato per “insufficienza di prove”. Eppure, entrambi beneficiano dell’aggettivo “innocente”;
— extracomunitario: una parola che attiva immediatamente ostilità, diversità, parola che crea un diverso, un estraneo da respingere. Parola diventata ormai sinonimo di “negro”, “marocchino”. È un’interferenza sulla realtà, la creazione di una realtà falsa, parallela, che ogni giorno sperimentiamo;
— austerità: negli anni ’70 indicava risparmio, attenzione, non spreco, era un po’ ciò che si definiva “questione morale”, cioè un modo avanzato di guardare i consumi. Il simbolo erano le domeniche senza auto in anni in cui l’auto era comunque un bene di lusso o quasi. Ora, invece, siamo tutti succubi dell’accezione tedesca di questa parola: sacrifici, rigore ottuso, rispetto dei parametri economici (e non dello stile di vita) in nome di regole rigide che non hanno uno sguardo aperto al futuro.
E poi libertà, dignità, morale, etica…
Ce ne sono centinaia, è quasi un gioco il riconoscerle. Come se fosse una caccia, una caccia all’ideologico quotidiano.

Carofiglio, “La manomissione delle parole”, Rizzoli, 2010.
Orwell, “1984”, Mondadori.
Kung, “Onestà – Perché l’economia ha bisogno di un’etica”, Mondolibri, 2011.