Desidero ricordare una persona che ho conosciuto solamente attraverso i suoi scatti fotografici e che ci ha lasciati lo scorso 13 dicembre 2015.
Non sono un esperto di fotografia, tantomeno un apprendista fotografo. potrei forse dire che vedere alcune fotografie mi comunica più di un’intera pagina scritta. Non sempre, solo a volte, ma certamente le foto di Dondero mi hanno colpito, affascinato.
«La fotografia – sono parole sue – è un magnifico strumento per cogliere situazioni che le parole non possono comunicare. Ma non mi interessa l’aspetto artigianale né l’estetica, bensì il contenuto delle immagini. Mi basta raggiungere una capacità tecnica sufficiente per raccontare storie. Sono convinto che sia più importante pubblicare su un giornale che fare una mostra. Scomodare la parola “arte” per il reportage mi sembra eccessivo. Anzi, direi che troppo talento artistico nuoce al racconto.»
E di storie, Dondero, ne ha raccontate tante: Marocco, Algeria, Cuba, l’ex Unione Sovietica fino all’Afghanistan, dove ha documentato il lavoro delle équipe mediche di Emergency, di cui era sostenitore.
Era stato partigiano a 16 anni nella Repubblica dell’Ossola e non ha mai smesso di esserlo: non ha nemmeno mai esitato a scegliere da che parte stare, ma senza rigidità. «Quando andavo all’asilo, per esempio, facevo l’abissino contro le camicie nere e il pellerossa contro le giacche blu. Mi sono sempre trovato istintivamente all’opposizione», raccontava.
E questa opposizione raccontava, attraverso le sue fotografie e attraverso il contatto con le persone, conosciute e sconosciute.
Citando le parole con cui lo ha ricordato Valentina Redaelli, giornalista di Radio Popolare: «era mosso da pari interesse per quelli senza nome e per i grandi, tutti incontrati, osservati e ritratti con la stessa pietas. Si considerava un sopravvissuto, non solo dei fascisti, ma anche dei selfie: “se l’obiettivo è sempre rivolto verso se stessi, non si vede nulla”.»
Grazie, Dondero.
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