Lo scorso 21 ottobre chiudevo il post dedicato a Marmomacc con queste parole: “ovviamente è difficile sintetizzare, ho cercato di leggere e proporre quelle che mi sono sembrate le tendenze attuali. Il settore si sta muovendo un po’ in ordine sparso: da una parte la ricerca del mercato, il tentativo di rendere accessibile il materiale lapideo alla gran parte delle persone; dall’altra, invece, la spinta verso un’esasperazione del processo tecnologico applicato alla pietra, esasperazione che la porta ad essere ‘riservata’ a pochi, nel senso che pochi ne potranno usufruire. Le tre mostre sopra raccontate (molto sinteticamente) segnano un solco: quasi il tentativo di portare nel processo produttivo il know-how del singolo, quasi il tentativo di trasformare la conoscenza profonda del vecchio scalpellino (ormai quasi scomparso) in una programmazione informatica. O, meglio ancora: equiparare le capacità e le conoscenze acquisite in anni e anni di faticoso lavoro manuale alla capacità di un programmatore informatico.
Non so, penso che questo rapporto-conflitto debba essere approfondito, pena la perdita di un patrimonio, questo sì tipicamente italiano (il nostro vero Made in Italy).”
Mi sono chiesto più volte cosa significhi “Made in Italy”. Di primo acchito parrebbe una risposta semplice: quanto prodotto in Italia, oppure da aziende italiane, oppure da manodopera italiana, oppure brevettato e registrato in Italia, oppure…
Mi pare che oggi, in un mondo globalizzato in cui le distanze sono nulle, parlare di Made in Italy debba avere un’accezione diversa. Mi pare che debba esserci dentro qualcosa in più, perché non può più essere sufficiente la classificazione cui siamo abituati perché non più reale.
Per esempio: un’opera lapidea oggi può definirsi Made in Italy se realizzata da azienda italiana, magari con macchinari di aziende italiane. La provenienza del materiale utilizzato diventa secondaria, come pure il luogo in cui viene realizzata. Anche nell’edizione 2016 di Marmomacc il Made in Italy era centrato sull’azienda che aveva finanziato la realizzazione di quanto esposto: azienda italiana con materiale lapideo diversificato e di diversificata provenienza, lavorato con macchinari assolutamente all’avanguardia. Il tutto coordinato/progettato da designer italiani. Ma la certificazione del Made in Italy passava dalla grande o media azienda che era dietro ai vari progetti o, almeno, questo è il messaggio che è pervenuto a me e alle altre persone con le quali mi sono confrontato.
È così in quasi ogni settore produttivo: il Made in Italy passa attraverso la ‘garanzia’ dell’azienda produttrice/venditrice/divulgatrice o nelle pieghe di qualche articolo di legge che permette tale certificazione, a condizione che risulti una permanenza su suolo italiano per un certo numero di giorni (per esempio gli animali e quanto deriva da loro).
Diverso dovrebbe essere il discorso per il settore lapideo. Siamo una nazione ricchissima di materiali naturalmente estratti dal nostro territorio, abbiamo un’esperienza secolare nella loro lavorazione, li abbiamo sempre esportati in ogni angolo del mondo. La nostra manodopera è sempre stata ricercata per capacità e competenza… eppure, ogni volta che viene proposto il marmo, lo si riduce a semplice ‘artificio’: magari complicatissima espressione ultratecnologica fino a quel momento, impossibile anche solo da pensare ma sempre priva di soggettività.
Di fronte a una creazione lapidea articolata rimaniamo a bocca aperta e pensiamo solamente alle macchine che ne hanno permesso la realizzazione, alle aziende che le hanno progettate. Mai ci viene da pensare alla cava da cui è stato estratto il marmo, alle competenze immense di coloro che lo hanno cavato, alla movimentazione dei blocchi e alla loro successiva preparazione prima di iniziarne la ‘modellazione’. Non lo pensiamo perché non ci viene proposto: i cartelli o i video di questi allestimenti mostrano il macchinario che sta lavorando, raccontano il totale delle ore impiegate, la progettazione, ma mai una volta che ci venga proposta la cava d’estrazione.
Un esempio che desidero fare riguarda le cave di Ardesia. Ho avuto la fortuna di conoscere un cavatoÈe di Ardesia, in Liguria, e la fortuna di farmi raccontare come avviene la cavagione del blocco e vedere dal vivo la cava. Davvero impressionante e surreale. Le cave sono delle ferite all’interno delle montagne all’inseguimento della vena di Ardesia. Una volta liberata e liberato il blocco, questo viene trascinato verso l’alto, verso l’entrata per portarlo in superficie, caricarlo su camion e poi verso la segheria. Queste cave sono opere d’arte: grotte artificiali con pilastri e travi nel ventre delle montagne. Quando piove diventano letti di acque che scendono verso il basso. Luoghi da brivido.
Eppure nessuno lo sa. Eppure questa è la base materiale del Made in Italy.
Ma Made in Italy sono anche le piccole aziende artigianali che lavorano la pietra. Entrando in contatto con questi artigiani si scopre la passione che queste persone ci mettono. Passione che porta a sperimentare strade sempre nuove e diverse per cercare di ‘rimanere a galla’.
Penso che il settore lapideo soffra veramente di una grande dicotomia: da una parte la ricerca sempre più esasperata della realizzazione del profitto; dall’altra l’incapacità ‘strutturale’ di cambiare direzione o proporre qualcosa di nuovo. Opero nel settore da oltre trentadue anni e ritengo di non avere mai assistito a quanto oggi in atto.
Oggi si assiste a una guerra senza confini: molte grosse aziende del settore hanno i propri venditori che girano tutto il giorno in cerca di commesse, e fin qui nulla di strano. Il problema è che, sempre più spesso, scavalcano le piccole aziende che operano in un territorio: forti della loro grandezza possono offrire prezzi talmente bassi che eliminano ogni concorrenza.
Addirittura si viene a conoscenza di alcuni grossisti che, pur di realizzare profitto, sono disposti a vendere direttamente al cliente finale. E lo fanno, anche se non tutti, per fortuna.
Anche le piccole realtà artigianali si adeguano: sono sempre alla ricerca del prezzo più basso del materiale di partenza, spesso (o quasi sempre) a discapito della qualità dello stesso. Con relativi aumenti dei tempi di lavorazione oppure con l’esposizione a una possibile contestazione per la qualità scadente della pietra.
Molto altro si potrebbe aggiungere. È un quadro desolante e certamente deprimente. Forse addirittura un modo per non allargare l’appartenenza al Made in Italy e tenerlo riservato ai soliti noti…
Ma bisogna trovare il modo per essere come sabbia in questo oliato ingranaggio.
In alto: una cava di ardesia