Sopra: il versante settentrionale del Monte Disgrazia
Chi ha provato a scalare una montagna, una parete o un pezzo di roccia, si può rendere conto che ci sono domande cui sembra impossibile dare risposte.
A volte mi sento chiedere: “che senso ha andare a scalare?”. Per anni non ho avuto una risposta a tale domanda, o meglio ho dato risposte lunghe e talvolta noiose quasi fossero un tentativo di giustificare una passione, una cosa che piace. Quasi si dovessero rinchiudere principi etici o morali elevati all’interno della risposta, come se questi dovessero ‘convincere’.
Oggi, che non scalo più (per scelta), ho una risposta molto più semplice. A chi mi dovesse chiedere il senso della scalata, a chi mi dovesse chiedere di spiegare i motivi che portano a rischiare la vita per arrivare a un punto da cui poi si deve tornare indietro, a questo risponderei semplicemente: “il senso è quello che ognuno gli dà”. Nessun altro.
Non penso esista una spiegazione comune, non penso sia nemmeno comunicabile il senso di una scalata: rischio elevato, guadagno economico nullo, fatica e sofferenza, solitudine e fratellanza, vita e morte…
Solamente chi sperimenta tutto questo in prima persona può comprendere.
Ma la domanda da cui discendono tutte le altre è: la montagna è singolare o plurale? La scalata è sinonimo di solitudine oppure ha una dimensione collettiva? Certamente, oggi, l’alpinismo ha una dimensione collettiva: quasi chiunque può prendere una guida e farsi, appunto, guidare verso vette altrimenti irraggiungibili. Sembra che la montagna abbia acquistato una dimensione più alla portata di tutti (o quasi). Pare non ci sia più nulla da inventare: vie tracciate da altri, itinerari attrezzati con chiodi e catene… quasi una riproduzione del ‘dejà vu’.
Tutto sotto controllo, dunque? In realtà, no. La montagna si presenta sempre con la propria identità e sempre, presto o tardi, presenta il conto: per le condizioni meteo, per una slavina, per stanchezza o freddo o ghiaccio… La montagna ha la capacità di riportare ognuno a una dimensione individuale, singolare.
Un bivacco in parete, un temporale con l’aria carica di elettricità, un abbassamento delle temperature improvviso e imprevisto, un passaggio impossibile da superare durante la salita e, nel contempo, la consapevolezza dell’impossibilità di fare dietrofront, un malore di uno qualunque del gruppo o la perdita della sensibilità a mani e piedi tanto da non riuscire più a muoverli… Ecco che al primo posto si erge l’istinto di sopravvivenza, l’istinto di conservazione della specie, quell’istinto che non pensavi di avere e che porta la tua vita, anche quella biologica, tra le priorità.
‘Collettiva’ era anni fa la comunione che si creava con chi era compagno di cordata, non più l’io ma il noi, anche per il destino comune: “la mia vita dipende dalla tua come la tua dipende dalla mia”.
A volte si deve decidere di tentare una sortita lasciando indietro altri che non ce la fanno, ed ecco che la loro salvezza può passare anche (o solo) dalla riuscita del tuo azzardo.
Solo chi ci è passato può comprendere cosa significa.
Solo chi ci è passato può capire l’angoscia della decisione.
Solo chi ci è passato sa che ci dovrà convivere tutta la vita, da solo.
Solo chi ci è passato preferisce il silenzio, la dimensione singolare.
Solo chi ci è passato conosce il significato della parola solitudine.
«Da quassù il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso.
E pensare che lo si reputa vivo soltanto perché è caotico e rumoroso.»
— Walter Bonatti
Il pilone centrale del monte bianco